La Tradizione Greco-Romana e la Massoneria.

Alcuni aspetti del simbolismo di Ercole

 Mariano Bizzarri[1]

Come noto, i templi massonici italiani prevedono che, in corrispondenza degli scranni delle Luci vengano collocate le statue di Ercole (II° Sorvegliante), Venere (I° Sorvegliante) e Minerva (Maestro Venerabile). Queste presenze simboliche sono solo alcune tra quelle che la Massoneria – vera e propria Arca vivente dei Simboli[2] – ha ereditato dalla Tradizione Greco-Romana di cui, in qualche modo, ne tramanda i germi più vitali e significativi. E’ tuttavia alquanto spiacevole dover rilevare come taluni autori “moderni” non abbiano saputo cogliere la portata esoterica di tali riferimenti e, mostrando una sostanziale incapacità di comprensione metafisica del simbolismo, abbiano “liquidato” il problema posto dalla permanente vitalità della Tradizione Romana con poche e d irriverenti battute[3], quando addirittura non passino semplicemente sotto silenzio l’intera questione.

Eppure le relazioni che sussistono tra Massoneria ed esoterismo greco-romano sono state nel passato sottolineate con dovizia di argomenti dal Reghini[4], dal Pike[5] e dal Porciatti che bene sottolinea come

“Ercole [sia] il prototipo dell’Iniziato[6] [] che respinge il vivere facile e dolce decidendosi ad un lavoro incessante e faticoso [..]. Fra le colonne, l’iniziando Compagno non deve dimostrarsi da meno dell’eroe mitologico [in cui] il concetto iniziatico vi appare nella sua duplice veste interiore ed esteriore epperciò, dal punto di vista classico, la figura di Ercole assume un carattere di completezza iniziatica molto suggestivo”[7]

Ercole concorre infatti a definire innanzitutto la “triade divina” costituita dagli attributi per mezzo dei quali il Principio – il GADU - si appalesa nell’ambito del Cosmo e dispiega la propria azione demiurgica per mezzo della Sapienza (Minerva), della Forza (Ercole) e della Bellezza (Venere); un concetto non a caso sottolineato da Dante, quando ricorda che:

        “Fecemi la divina Potestate,

la somma Sapienza e il primo Amore”[8]

L’evocazione della triade romana in un contesto massonico è non solo pertinente – nella misura in cui rinvia agli attributi divini per tramite i quali il Libero Muratore è chiamato a riattualizzare l’atto creativo operato “all’inizio” dal GADU – ma è altresì appropriata in relazione al parallelismo che può essere tracciato con la triade tradizionale dell’induismo, dove  Forza, Bellezza e Saggezza costituiscono l’aspetto “operativo” o, se si vuole, “la volontà fattiva”, la Shakti,  delle tre principali divinità: Bhrama, Shiva e Visnù[9]. Il fatto che tutte e tre siano rappresentate nel tempio massonico offre spunto a considerazioni della più grande importanza che riguardano propriamente l’aspetto operativo della massoneria, nella misura in cui alludono chiaramente a quali attributi[10] – e di conseguenza a quali nomi – il massone deve far riferimento nel corso dell’Opera e a quelle qualità che è chiamato a reintegrare e ricapitolare durante il percorso che – a ritroso – lo porterà a risalire la china che separa la condizione umana dalla piena realizzazione iniziatica da cui è decaduto. Un percorso complesso, irto di difficoltà, che si snoda per gradi e di cui l’epopea di Ercole ci offre forse la migliore sintesi simbolica possibile[11].

 

Il  “cammino” di Ercole

Ercole è figlio di Zeus ed Alcmena, una donna “mortale”. Grazie ad uno stratagemma – che ricorda da molti punti di vista quello adottato da Ute Pendragon, padre dell’Artù celtico – Giove riesce ad introdursi nell’alcova della mortale e trascorre con lei l’intera nottata.  L’obiettivo del dio – quale ci viene tramandato dal mito greco – è quello di assicurare la continuità della casata di Perseo e generare un uomo tanto forte “da impedire lo sterminio degli uomini e degli dei”. Di fatto, benché “predestinato”, Ercole dovrà affrontare una serie di imprese, già dal momento del concepimento, per acquisire un ruolo ed un titolo che resterebbero altrimenti virtuali[12]. Alla sua nascita si oppongono innanzitutto le “streghe”, che, dietro istigazione di Era, cercano – invano – di ritardare il parto di Alcmena[13]. L’avversione di Era – ipostasi del principio reggitore della sfera della Terra nell’ambito della tripartizione del cosmo – costituisce un elemento costante e caratterizzante dell’intera epopea ed esprime, a livello simbolico, l’ostilità latente del mondo corporeo nei confronti di chiunque – e massimamente dell’iniziato – cerchi di affrancarsi dal suo dominio[14].

Compiute alcune imprese, alcune delle quali già nella culla – come l’uccisione dei due serpenti – dopo aver girovagato per mari e per monti, impratichitosi delle arti liberali e delle tecniche della guerra, ed aver conosciuto la sofferenza e la cupa disperazione che gli faranno vacillare la ragione, l’eroe si ritirerà per alcuni giorni in una “camera buia” – vera e propria prefigurazione del gabinetto di riflessione - in totale solitudine. Ercole verrà quindi purificato dal re Tespio prima di recarsi all’oracolo di Delfi dove la Pizia lo chiamerà per la prima volta Heraklés[15] e gli svelerà che, per conquistarsi l’immortalità, dovrà porsi per dodici anni al servizio del re di Tirinto, lo stolto Euristeo[16] che, in successione, gli imporrà le fatidiche dodici imprese.

Le “dodici fatiche”, che si concludono con la “assunzione” in cielo del mortale figlio di Zeus, descrivono un complesso itinerario iniziatico circoscritto all’ambito dei piccoli misteri e che copre, come indicato del resto dal riferimento alle dodici stazioni, l’intera gamma delle possibilità inerenti lo stato umano, qui considerato come un grado dell’esistenza universale. Come tale l’epopea  si presta ad un’articolata lettura simbolica suscettibile di interpretazione tanto sincronica quanto diacronica. Stante l’esistenza di taluni incertezze circa la cronologia originaria delle imprese di Ercole, è preferibile affidarsi all’approccio tematico che meglio permette di enuclearne gli aspetti qualificanti e simbolicamente rilevanti. Il filo conduttore è facilmente individuabile in una serie di prove iniziatiche, ricche di significati simbolici, il cui compimento permette al “figlio del Cielo” di accedere all’iniziazione ai piccoli misteri qualificarsi come promesso sposo di Atena-Minerva e quindi, per suo tramite, essere “accolto” nell’Olimpo.

La lotta contro le Potenze della Contro-Iniziazione

Un primo gruppo di “Fatiche” (I,II,VI,VIII e IX)[17] fa espressamente riferimento al combattimento ingaggiato da Ercole contro le potenze della controiniziazione. Lungi dall’essere questo un richiamo vago e generico, la saga del semidio individua con estrema chiarezza l’avversario dell’Eroe, identificandolo con il principio stesso da cui proviene l’origine  del potere controiniziatico.  Ercole si scontrerà infatti a più riprese con i figli di Echidna e Tifone, sconfiggendoli l’uno dopo l’altro: il leone Nemeo (I fatica), l’Idra di Lerna (II), il cane Orione (X) ed infine Cerbero (XII). Echidna, un mostro per metà donna e per metà serpente, si apparenta simbolicamente ad una ben nota classe di figure demoniache di cui l’esempio meglio noto è costituito da Melusina[18]: “patrona” delle arti magiche ed espressione specifica delle tentazioni e dei pericoli cui è esposto l’iniziato quando si accosta a Scienze tradizionali che, prive di qualsiasi ricollegamento a principi di ordine superiore, costituiscono ormai solo un pericoloso strumento di deviazione. Tifone[19], come ci ricorda Guénon, non è altri che il dio egizio Seth, denominato, in opposizione ad Horus “occhio nero del sole calante”; la sua mitologia ricorda per molti aspetti quella del Lucifero biblico. Infatti Seth, una volta campione delle forze luminose, incarnazione del prototipo guerriero che ritto sulla prua del vascello di Ra uccide il Dragone Apoptis, si ribella all’autorità spirituale per uccidere il principio solare, Osiride. Di fatto

“la sola cosa che sussiste dell’antico Egitto è una magia molto pericolosa e di ordine molto inferiore che si ricollega precisamente ai misteri del dio dalla testa d’asino che non è altri se non Seth/Tifone”[20]

L’unione tra Tifone ed Echidna evoca per analogia quella descritta dal Genesi [21]ed ampiamente sviluppata nel Libro di Enoch in cui è questione della nefasta progenie di giganti nata dai “figli di Dio” illegittimamente coniugati alle “figlie degli uomini”:  da Tifone ed Echidna nasceranno infatti mostri e titani che saranno gli autori di quella rivolta contro l’olimpo, per scongiurare la quale l’intervento di Zeus non sarà sufficiente e sarà invero necessario fare appello all’aiuto di un mortale come Ercole. Racconta infatti Macrobio che

“Si crede che egli [Ercole] stesso abbia ucciso i Giganti, combattendo a difesa del Cielo, come simbolo del valore degli dei. Quanto ai Giganti, cosa bisogna pensare se non che furono una stirpe di uomini, empi negatori degli dei, e quindi ritenuti desiderosi di scacciare gli dei dalla loro sede celeste. [..] Il Sole fece giusta vendetta di questo popolo con la forza del suo calore apportatore di pestilenze”[22]

Quest’aspetto del mito è suscettibile di una complessa analisi simbolica che, generalmente, viene raramente tenuta nel debito conto, ma dove l’aspetto essenziale è costituito dal contributo irrinunciabile che gli uomini – ed in specie gli iniziati – debbono fornire per contrastare i processi involutivi propri ad ogni ciclo di manifestazione, opponendosi attivamente alla degenerazione il cui principio primo, nell’ambito dell’attuale manvantara, viene ad essere identificato appunto con Tifone. La circostanza per la quale il mito evidenzi come la contrapposizione tra gli dei dell’Olimpo e i Giganti non si esaurisca con l’incatenamento di Tifone[23] al di sotto dell’Etna, ma prosegua con altri episodi, ciascuno dei quali estremamente significativo, viene ad essere rievocata dalla saga di Ercole che a più riprese – ed anzi fino all’ultimo – si trova costretto a confrontarsi con le forze oscure della controiniziazione. Da queste riesce a “liberarsi” solo con l’ascensione “ai cieli”, che qui deve va intesa come raggiungimento di quel “paradiso terrestre”, invariabile mezzo in cui l’essere si trova finalmente affrancato dal ciclo “infernale” del ritorno nell’ambito del manifestato (il Samsara della tradizione estremo-orientale) e così, finalmente “trasformato”, può ormai proseguire nel dominio del non-manifestato, costituito per l’appunto dai “cieli superiori”.

Nel contesto di queste vicissitudini, due episodi meritano una menzione particolare. Nel primo di questi, il semidio si trova a dover scacciare gli Stinfali (VI fatica), uccelli di bronzo, divoratori di uomini, di animali e distruttori delle messi. I rapaci in questione sono apparentati dal mito ad una tribù di streghe, sacerdotesse arcadi della triplice dea – la famigerata Dea Bianca - già in precedenza perseguitate dai “lupi” invasori devoti a “Zeus lupo”. Anche qui i riferimenti simbolici si moltiplicano e nel loro intreccio illuminano l’ermeneutica del racconto. Il tema dominante – e che ritorna in numerosi altri episodi – è quello inerente l’annientamento della tradizione deviata che fa capo al culto della Grande Madre e di cui i momenti salienti sono rappresentati dalla Guerra di Troia e dalla rivolta dei Giganti. Intorno al XII° secolo a.C., in concomitanza con la disastrosa conclusione dell’età del bronzo e prima di quella del ferro, per gli uomini il cui destino sembrava ormai quello di essere travolti negli oscuri meandri di una civiltà impregnata di magia nera, così da

“spegnersi senza gloria nell’Ade, Zeus creò una schiatta migliore, che Esiodo chiamò appunto degli Eroi, cui è data la possibilità di conquistare l’immortalità e di partecipare, malgrado tutto [il corsivo è nostro], ad uno stato simile a quello dell’età primordiale. Si tratta dunque di un tipo di civiltà nel quale si manifesta il tentativo di restaurare la tradizione delle origini sulla base del principio guerriero e della qualificazione guerriera”[24] .

La specificazione che fa Evola, sottolineando quel “malgrado tutto” è della più rilevante importanza, dato che implica come quel tipo di “via al sacro” non permettesse l’acquisizione integrale dei Grandi Misteri, ma si fermasse necessariamente ai piccoli, come del resto è prerogativa propria di qualunque “via” riservata agli Ksathriya. Ed in effetti Ercole, che dei guerrieri è il prototipo ed il campione, verrà ammesso soltanto ai Piccoli Misteri nell’ambito dell’iniziazione eleusina (XII fatica), essendogli di fatto precluse forme di iniziazione che per la loro natura sono di diritto riservate alla casta sacerdotale e di cui, in Occidente, già allora (XII secolo) non restavano ormai che tracce.

Una delle tappe di questo percorso consiste propriamente nel riappropriarsi della “Potenza indebitamente posseduta dalla spiritualità demetrica”[25] - simboleggiata appunto dal culto della Dea Bianca – “superando così la hybris della chiusura titanica dell’Io”.  La duplice opposizione dell’Eroe fa riferimento alle due fasi dissolventi del ciclo dell’Umanità, quella caratterizzata dalla preminenza del sacerdozio lunare femminile (Età dell’Argento) e quella successiva (Età del Bronzo), ingeneratasi come reazione alla precedente e caratterizzata dalla lotta dell’elemento maschile decaduto, personificato dalla violenza Titanica che a sua volta ingenera il proprio contrario femminile, e cioè l’Amazzonismo. Non per caso Ercole dovrà sconfiggere anche le rappresentanti di quest’ultimo, uccidendo la regina Ippolita e recuperando la cintura di Ares – simbolo di Potenza virile e virtù guerriera – da lei indebitamente posseduta. L’episodio in questione va messo in parallelo con altri analoghi attribuiti a Teseo, Dioniso, Mopso, allo stesso Ercole[26], e tutti sembrano indicare tanto la soppressione dei culti lunari quanto dei sistemi socioeconomici (il matriarcato) a questi improntati in Grecia, Asia Minore, Tracia e Siria[27]. Il senso cosmologico inerente il simbolismo sotteso a questi miti è evidente e fa riferimento a come “prima della precipitazione ultima [] venga avviato un grande tentativo di restaurazione integrale della Tradizione Primordiale dell’Aurea Età” tale da permettere agli emitheoi di “rientrare nell’immortalità per ricostituire l’Unità, realizzando cioè l’Uno che assorbe il Due”[28].

 

La ricerca della saggezza

Il tema della ricerca della sapienza divina sottende alcune delle imprese di Ercole tra le meno attentamente considerate dalla esegesi critica, probabilmente a causa di una interpretazione riduttiva della “via cavalleresca”, intesa primariamente nella sua accezione marziale quasi che questa non prevedesse, al pari di altri percorsi iniziatici, l’acquisizione di un patrimonio sapienziale che, in quest’ambito specifico, sa coniugare il momento dell’azione a quello della contemplazione attiva. La cattura della Cerva (III fatica)[29], così come quella del cinghiale Erimanzio (IV), rientra indiscutibilmente in questo gruppo. La Cerva sacra, dotata di corna d’oro e zoccoli di bronzo, viene inseguita da Ercole lungo un anno intero, fino al “paese degli Iperborei”, dove finalmente, ai piedi di un albero, viene catturata dall’Eroe grazie ad uno stratagemma per essere quindi portata a Micene[30], dopo aver vinto la resistenza di Artemide. L’insieme delle specificazioni simboliche che fanno da corollario a tale episodio evidenzia inequivocabilmente come la cerva sia qui ipostasi della saggezza iniziatica: l’attributo delle corna fa pensare che in origine doveva piuttosto trattarsi di una renna – unica femmina ad esserne dotata in Europa – e ne colloca pertanto la residenza in un ambito “polare”; il successivo riferimento agli “iperborei” non fa che confermare la specificazione di luogo sottesa al mito: la Tradizione di cui Ercole finisce con l’impossessarsi è in effetti quella Sacra[31] e Primordiale, geograficamente messa in relazione con il Polo[32] e quindi con la regione degli Iperborei; la “Caccia” dura dodici mesi a significare come la ricerca comporti obbligatoriamente l’esplorazione e l’assimilazione di tutte le possibilità – qui raffigurate in modalità spazio-temporale – connesse al grado di esistenza proprio della condizione umana[33] e termina in corrispondenza di un albero, simbolo assiale per eccellenza, termine ultimo del peregrinare orizzontale dell’uomo ed ipostasi del centro da cui si diparte l’axis mundi.

Affatto dissimile è il significato simbolico inerente l’episodio – peraltro complesso e infarcito di elementi diversi – relativo alla cattura del cinghiale Erimanzio. E’ ben noto come tale animale costituisca l’emblema della sapienza sacerdotale nella tradizione celtica e l’ipostasi stessa di Visnù in quella induista. L’era del “cinghiale bianco”  è propriamente quella dell’età dell’Oro, caratterizzata dalla normale prevalenza dell’elemento spirituale nella gerarchia della comunità degli uomini[34]. L’intervento di Ercole assume anche in questo contesto di nuovo un significato salvifico e di recupero di una conoscenza finita dispersa “sulla vetta dei monti": Erimanzio viene infatti catturato sulla montagna di Erimanto, figlio di Apollo e caro ad Artemide: ritroviamo la diade indissolubile Apollo-Diana che ancora una volta testimonia degli stretti rapporti che intercorrono tra le due porte e le due vie. Va rilevato come, contrariamente a quanto accade nel mito del cinghiale bianco[35] di Calidonia – perseguitato e quindi ucciso da Atalanta – nel corso della IV fatica l’Eroe non sopprime l’animale, ma lo cattura per condurlo a Micene. Il significato dell’episodio è qui diametralmente opposto: nel primo caso, con la morte dell’animale, i rappresentanti della casta dei guerrieri si attribuiscono una vittoria definitiva sui rappresentanti della casta sacerdotale; nel secondo caso, la bestia viene in realtà protetta da una probabile morte e messa in salvo, come narra  la leggenda, nel tempio di Apollo a Cuma[36].

 

Il viaggio nell’oltretomba e l’iniziazione ai misteri

L’ultimo gruppo di fatiche (X,XI e XII), il cui ordine cronologico è ancora discusso, è inerente la discesa ad inferos dell’eroe, la rinascita rituale ed il raggiungimento del Paradiso Terrestre. In questa prospettiva ermeneutica è probabile, come già suggerito dal Graves[37] e da altri autori, che la dodicesima impresa debba essere sostituita alla decima. Al momento di procedere verso Occidente e addentrarsi nelle viscere dell’Ade, Ercole chiede di essere preliminarmente iniziato ai misteri di Eleusi e, preparato alla “morte rituale”, si cinge il capo di mirto. Tuttavia, è solo dopo l’adozione da parte di Pilio e la purificazione svolta da Eumolpo che all’Eroe viene consentito di accedere ai Piccoli Misteri”[38]. Guidato da Atena-Minerva – che accorre in suo aiuto ogni qualvolta invoca Zeus padre – e da Ermete, Ercole attraversa la desolazione infernale, cattura Cerbero e riemerge dentro una grotta dopo essersi rivestito delle fronde dell’albero dei Campi Elisi, il cui duplice colore – bianco e nero – attesta come egli sia risultato vincitore in entrambi i mondi: terrestre ed infero[39].

E’ proprio la vittoria conseguita in quest’impresa che mette Ercole nella condizione di poter recuperare i buoi di Gerione (X fatica) e di entrare in possesso delle mele delle Esperidi (XI fatica). Nel corso della prima di queste, al termine di un lungo viaggio per mare che lo porta da Oriente ad Occidente,  Ercole giunge prima a Tartesso, dove innalza due colonne volte a delimitare lo stretto, e quindi nell’isola di Gades, sperduta nel mare. Qui regna Gerione, mostro dai tre corpi che, insieme al mandriano Eurizione ed al cane Ortro, figlio anch’esso di Echidna e Tifone, custodisce una mandria di buoi. L’Eroe, dopo aver ucciso i guardiani, si impossessa del bestiame, fa loro attraversare il mare grazie ad una coppa-calderone fornitagli da Elio[40] e, attraverso numerose peripezie giunge in Italia – dove sconfigge il gigante Caco, istituisce il culto di Zeus e proibisce i sacrifici umani – per consegnare gli animali ad Euristeo. Il mito – qui brevissimamente ricordato – offre spunti innumerevoli di riflessione e meditazione simbolica su cui non è possibile soffermarsi esaustivamente, dati i limiti del presente saggio. Alcuni passaggi meritano tuttavia di essere sottolineati, considerando le connessioni evidenti che presentano con il tema che ci siamo prefissi di affrontare. Innanzitutto occorre affrontare la vexata quaestio rappresentata dai significati – molteplici ed inestricabilmente intrecciati – inerenti il simbolismo delle colonne. Queste vennero erette in prossimità della biblica Tarsis[41], a delimitare il mondo dei vivi dalle Isole Occidentali della morte. Simbolicamente il viaggio che Ercole intraprende verso Occidente – al pari di imprese analoghe compiute da altri “eroi” della tradizione occidentale e medio-orientale[42] - costituisce una prefigurazione della discesa agli inferi che tornerà a compiere tanto nell’undicesima quanto nella dodicesima fatica. Anche per Dante le colonne hanno il valore di landmarks deputate a delimitare un insuperabile spartiacque che avrebbe finito con il diventare un vero e proprio tabù destinato a durare fino all’epoca di Cristoforo Colombo. Quell’interdetto rivestiva probabilmente un duplice ordine di significati, l’uno propriamente geografico e di ordine quindi cosmologico, l’altro relativo alla pericolosità di una qualche forma di conoscenza strettamente connessa alle colonne stesse. Come riportato da alcuni autori, sulle colonne era infatti stato inciso “qualcosa”[43], mentre, per la saga celtica di “Ogma volto di Sole”[44] – l’Ercole della tradizione nordica – le colonne costituiscono delle nuove “astrazioni alfabetiche” istituite da Eracle, che avrebbero sostituito il precedente linguaggio e, per estensione, la conoscenza sacra cui l’alfabeto stesso fa riferimento. Tra il V e il VI secolo a.C. – un periodo cruciale per l’Occidente da numerosi punti di vista – l’alfabeto bardico di venti lettere (ripartite su quattro colonne ricoperte d’oro rosso), noto come il Boibel-Loth in cui

[] i nomi greci delle lettere si riferivano al viaggio del divino Ercole nel nappo solare [..], soppiantò l’alfabeto arboreo Beth-Luis-Nion, dove i nomi greci delle lettere si riferivano all’uccisione di Crono sacrificato da donne inferocite.  Poiché le Gorgoni avevano un loro sacro bosco ad Erizia, “l’isola rossa” che Ferecide identifica con Cadice, e poiché “alberi” in tutte le lingue celtiche significa “lettere”, “l’albero che prende molte forme” è a mio parere l’alfabeto di Beth-Luis-Nion di cui le Gorgoni serbavano il segreto nel loro sacro bosco finché Eracle non le annientò. Secondo questa interpretazione il viaggio di Eracle ad Erizia, dove uccise Gerione e il cane Ortro [], si riferisce alla sostituzione dell’alfabeto di Crono con quello di Ercole”[45]

Questa osservazione è del più grande interesse proprio perché mette in relazione il simbolismo delle colonne-alberi con il deposito sapienziale proprio di un ciclo di manifestazione ed evidenzia come nell’episodio in questione si sia trattato di spodestare una tradizione ormai deviata – quella  che fa appunto riferimento a Crono – per affermare il primato di Zeus di cui Ercole è propriamente il campione. Il simbolismo delle “colonne di sapienza” che delimitano il succedersi dei grandi cicli in cui è suddiviso l’attuale manvantara è tutt’altro che estraneo alla Massoneria; basti pensare al XIII grado del Rito Scozzese –Principe del Real Arco - dove la leggenda riguarda le due colonne su cui Enoch avrebbe trascritto il “nome” segreto del GADU e la Scienza Sacra dell’epoca antediluviana, allo scopo di tramandarne il segreto[46]. E forse questo particolare è da mettere in relazione con un altro episodio della leggenda di Ercole in cui viene riferito di come Hiram, re di Tiro, dopo aver ricevuto da un oracolo l’ordine di fondare una colonia presso le Colonne d’Ercole, inviò a tale scopo tre spedizioni verso Cadice. Le prime due fallirono nella loro missione e, non riuscendo ad individuare l’isola di Erizia, tornarono in patria. La terza giunse finalmente a destinazione: venne eretto un tempio ad Ercole[47] sul promontorio orientale e fu fondata la città di Cadice su quello occidentale. Non è per questo improbabile che il simbolismo delle due colonne presenti in ogni tempio massonico possa ricollegarsi a questa tradizione, considerando come ogni simbolo sia suscettibile di plurime interpretazioni con ordini diversi di significato, tra loro integrati e complementari. Un accenno in tal senso è stato originariamente formulato dal Porciatti, che pone in relazione diretta i pilastri massonici con quelli

“conosciuti nell’antichità come Colonne di Melquart o di Ercole, quale limite oltre il quale muore lo spirito umano”[48].

Un ulteriore conferma di come sussista una stretta connessione tra le imprese di Ercole e l’affermazione di una nuova Tradizione può altresì essere dedotta dagli avvenimenti successivi all’uccisione di Gerione. Il semidio, infatti, dopo lunghe peripezie, giunge nella Saturnia Tellus, dove, alle pendici dell’Aventino, verrà accolto da re Evandro, un esule scampato dal diluvio che aveva devastato l’Arcadia. Ercole ucciderà il gigante Caco e, insieme ad Evandro, innalzerà un altare a Zeus, dopo aver insegnato alla madre del re, Carmenta, come sostituire l’alfabeto pelasgico – antediluviano – con quello latino di quindici consonanti[49]. Il ruolo che Ercole interpreta in questa decima avventura sottolinea a più riprese il carattere civilizzatore delle sue azioni e la provvidenzialità che le stesse rivestono in ambito più squisitamente cosmologico: Ercole è l’eroe che permette il recupero di una Tradizione regolare, raddrizza il corso degli eventi e sancisce la sconfitta di quelle forze che, raccolte intorno ai residui psichici di civiltà ormai morte – simbolicamente rappresentati dalla scienza degenerata e  condensata nell’alfabeto cronideo di tredici consonanti – opprimono l’uomo, nell’anima e nel corpo[50]. Un ruolo che, di fatto, viene portato a termine dai sacerdoti – primo tra tutti il rex – ma che, all’inizio, perlomeno in Occidente, è primariamente avviato e sostenuto dai guerrieri[51], i naturali protettori della casta sacerdotale. Questa operazione di raddrizzamento spirituale comporta infatti, come immediata conseguenza, la restituzione della funzione sacerdotale a suoi legittimi detentori. In tal senso va letto simbolicamente il recupero dei buoi[52], ipostasi del sacerdozio e – latu sensu – del sacrum facere; aver sottratto la mandria a Gerione – il gigante che illegittimamente si riveste di attributi sacerdotali che per loro natura non possono spettare ad uno ksathriya degenerato – ed averla condotta da Occidente – dalla Terra della Morte – ad Oriente, indica chiaramente come qui si tratti del recupero di una funzione spirituale il cui centro viene ricondotto ad Oriente per essere restituito ai detentori regolari; rilevante è che, nel corso del viaggio, alcuni animali verranno sacrificati a Giove nel Lazio, nella terra destinata ad accogliere uno dei poli che, prima con i Romani e poi con il Cristianesimo, sarà chiamato a perpetuare la regolarità e legittimità tradizionale nei secoli a venire[53].

Per molti versi analogo è l’insegnamento misteriosofico sotteso alla undicesima fatica. Ercole deve infatti recuperare i pomi d’oro affidati alla Grande Madre Era dalla Madre Terra e custoditi in un giardino posto alle pendici del monte Atlante, nella terra degli iperborei. Le Esperidi, figlie di Atlante, avevano provato invano ad appropriarsi dei frutti dell’albero miracoloso, dato che Era ne aveva affidata la custodia al drago Ladone, figlio anch’esso di Tifone e di Echidna. Ricorrendo sia alla forza sia all’astuzia, Ercole riesce ad avere la meglio sul drago, a raggirare Atlante e ad impossessarsi finalmente delle mele. L’oggetto del contendere è evidentemente una conoscenza sacra di origine primordiale, inaccessibile per la sua stessa natura alle “figlie di Atlante”, qui simbolo di quelle forze controiniziatiche disperse ai quattro angoli dell’universo dopo la degenerazione ed il cataclisma che pose fine al continente atlantideo. Ercole, rappresentante di Zeus posto al servizio di Era, recupera legittimamente i frutti e – quale signum di sottomissione al potere sacerdotale - li consegnerà ad Atena[54].

 

L’ “esaltazione” di Ercole

Al termine delle sue fatiche, il corpo morente disteso sull’ara ardente, lo spirito di Ercole – ormai “al riparo dalla morte” - verrà “assunto” in cielo dove, dopo aver praticato uno specifico rito di adozione, sarà formalmente considerato “figlio di Era e di Zeus” e presentato da Atena al convitto dei dodici dei dell’Olimpo. La triade che viene così a formarsi – Zeus, Era ed Ercole – pone in relazione la figura dell’Eroe con quella dell’Uomo universale della tradizione estremo-orientale, quale “figlio del Cielo e della Terra”, mediatore e ponte tra i due “poli” che danno origine alla manifestazione stessa. Questo ruolo centrale – per il quale Ercole finisce con il dimorare nell’invariabile mezzo – fa del semidio – al pari di Giano - la “porta di passaggio” che dal cosmo permette la fuoriuscita verso gli stati superiori; non a caso l’Alcide assumerà la funzione di “guardiano della soglia” che immette all’Olimpico, a tutela della “porta del cielo” che separa l’universo (il mondo della manifestazione) dai cieli superiori (gli stati informali della manifestazione stessa). Questa porta è simbolicamente identificata con il Sole e ciò rende ragione delle numerose correlazioni simboliche che intercorrono tra quest’ultimo e il semidio. Il nome celtico di Ercole – Ogma Volto di Sole – lo mette in relazione al raggio “riflesso” dell’astro diurno, quasi a sottolineare come nell’Eroe si riflettano le virtù e il principio divino stesso del Sole. Analogamente, la tradizione Romana[55] ricorda come “nemmeno Ercole sia estraneo alla sostanza solare”, un concetto simbolicamente adombrato dalla prima fatica, nel corso della quale l’Eroe si riveste della pelle del Leone, un simbolo ambivalente ma che tra i suoi complessi significati annovera quello di raffigurare i raggi solari e di prefigurarne in qualche modo l’arrivo. Per Plutarco non c’è alcun dubbio: “il mito vuole che Eracle risieda nel sole  e giri insieme a lui”[56], mentre  Macrobio non fa che sviluppare tale concetto:

“In realtà che Ercole sia il Sole appare chiaro anche dal nome. Infatti Heraklés che cos’è se non héras Kléos, cioè gloria dell’aria? E cos’altro è la gloria dell’aria se non la luce del sole, con la cui scomparsa si sprofonda nelle tenebre? [] Ercole è davvero il sole che è in tutto e dappertutto. [..] Anche da un fatto avvenuto in altro paese si trae argomento in appoggio alla tesi. Terone []spinto dalla pazza brama di conquistare il tempio di Ercole[57], allestì una flotta: gli abitanti di Cadice gli si pararono contro su navi da guerra; si attaccò battaglia e quando le sorti erano ancora indecise, improvvisamente le navi del re si volsero in fuga e immediatamente furono distrutte da un repentino incendio. I pochissimi superstiti fatti prigionieri dichiararono che erano apparsi loro dei leoni sulle prue delle navi di Cadice e le loro navi si erano incendiate all’improvviso, colpite da raggi simili a quelli che sono raffigurati attorno alla testa del Sole[58]

Giunto a questo livello, l’iniziato ha di fatto superato il dominio dei Piccoli Misteri e potenzialmente è pronto per accedere ai Grandi Misteri che permettono di andare al di là della manifestazione per giungere a conseguire quella che il sufismo definisce “l’identità suprema”, ovvero la ricongiunzione con il Principio, il cui simbolismo è racchiuso in nuce nel rito di esaltazione del Maestro Muratore dell’Arco Reale dove, come per Ercole, è questione di sancire ed  “onorare l’immortalità conquistata per mezzo della virtù”.

Ed è proprio in forza di questa caratteristica che Romolo, del tutto eccezionalmente, ne volle introdurre il culto a Roma, pur confinandolo nell’ambito della religiosità privata di una confraternita ristretta a due sole famiglie. Secondo la leggenda, una volta edificata l’Ara Maxima[59], Ercole avrebbe affidato le cure del servizio religioso alle famiglie dei Potiti e dei Pinarii, la cui etimologia greca, sicuramente mutuata dal linguaggio dei misteri,  designerebbe una duplice classe di iniziati “affamati di nutrimento di Vita” e, rispettivamente, dediti alla “invocazione” (rituale)[60]. Nel corso di questi riti –  da cui erano tassativamente escluse le donne – venivano infatti messe in essere operazioni teurgiche complesse che sarebbero state recuperate più tardi dal neoplatonismo e, in ultima istanza, dalla tradizione ermetica rinascimentale. Alludiamo qui alla telestica, l’arte di consacrare e vivificare le statue, in modo tale da consentire – come spiega Proclo trattando appunto della statua di Eracle[61] – l’affrancamento dell’anima dai legami che l’avviluppano e la vincolano al mondo delle forme. Lungi dal costituire un applicazione spicciola di bassa magia, il rituale in questione è inerente una particolare forma di “invocazione” che si avvaleva di strumenti simbolici come il rombo, “la cui rotazione, in un senso o in un altro, attiva o respinge ciò che si desidera o si detesta”[62]. Il riferimento alle tecniche di invocazione teurgica e a maggior ragione la menzione del rombo – il quadrato “oblungo” - come strumento rituale, sono ovviamente tutt’altro che estranee alla tradizione della massoneria operativa e costituisce probabilmente solo uno dei tanti motivi che giustificano la presenza della statua del semidio all’interno delle Logge muratorie. Comunque sia, quali che fossero i riti in questione[63], resta pur sempre l’anomalia di un culto che, al pari di quello di Minerva, era riservato ad una cerchia ristretta di persone, perlomeno fino al 312 a.C., quando, in seguito all’intervento del censore A. Claudio e per esplicita rinuncia della gens Potitia, diventò pubblico e finì con l’essere delegato a schiavi debitamente istruiti. Certo, tutto questo non dovette essere gradito al dio, come ricorda Livio nel rilevare che

[] ciò fu all’origine di un evento prodigioso che potrebbe far nascere degli scrupoli in chi cerca di innovare le pratiche religiose: [i membri] della gente Potitia [], nel giro di un anno, vennero ad estinguersi con tutta la loro prole. Non solo scomparve il nome di questa famiglia, ma lo stesso censore Appio [] fu accecato dagli dei che non avevano dimenticato il loro risentimento”[64].

Questa voluta sottolineatura dell’anomalia ingenerata dalla decisione del censore Claudio è amplificata dalla narrazione dell’annalistica romana che, a più riprese, rimarca il carattere riservato della pietas rivolta ad Ercole. E, come rileva il Dumézil

[] quali che ne siano le origini del culto, tutto cambiò nel 312, e noi vorremmo sapere proprio perché e in quali condizioni si produsse un tale cambiamento”[65]

Non sappiamo se e in quali forme i riti di Ercole si siano tramandati in forma “privata”, magari nell’ambito di gens o collegia riservati. Prendiamo atto di come, in origine, il suo culto, al pari di quello di Minerva, fosse riservato ad una cerchia qualificata che lo onorava quale ipostasi di quelle virtù guerriere che, nell’ambito di una iniziazione cavalleresca, permettono al miste di conquistarsi l’accesso al Paradiso costituito dai cieli sovrasensibili. In questo senso Ercole è propriamente l’ipostasi della Forza – volontà virile ed ignea – che diventa “potestà”, prefigurazione della “volontà iniziatica”, capace di conseguire l’obbiettivo nella misura in cui sa essere l’interprete della volontà del Cielo. Come il Sole – qui inteso metafisicamente come simbolo della Porta dei Cieli – fornisce la scintilla divina che permette all’Uomo di ricongiungersi al suo principio, così Ercole, che del Sole  è il “riflesso”, “dà agli uomini le virtù – le forze - che permettono loro di innalzarsi” e rendersi simili “agli dei”:

[] quippe Hercules ea est solis potestas quae humano generi virtutem ad similitudinem praestat deorum[66]

   Anche per questo, proprio perché la Massoneria ha recuperato ciò che resta delle perdute tradizioni misteriosofiche dell’antichità greco-romana, la statua del semidio, ancora oggi, adorna – et pour cause! -  i templi dei Liberi Muratori. Resta, infatti, pur sempre valido l’ammonimento di Cicerone:

Atque aut scio an pietate adversus deos sublata, fides etiam et societas generis humani et una excellentissima virtus iustitia tollatur[67]

 

 

 

 



[1] Università La Sapienza, Roma

[2] Siamo debitori per questa efficace espressione ricapitolativa a Denis Roman (cfr. Réflexions d’un chrétien sur la Franc-Maçonnerie, L’Arche vivante des Symboles, Editions Traditionnelles, Paris, 1995).

[3] Moramarco ritiene, con manifesto disprezzo, che le tre statue in questione costituiscano “escrescenze tardive e barocche”, per cui non considera “opportuno soffermarsi a lungo su di esse” essendo, peraltro “simulacri destinati [] a imminente desuetudine” (M. Moramarco, Nuova Enciclopedia Massonica , CESAS, Reggio Emilia, 1989, p. 154). Per fortuna la Massoneria con i suoi simboli resta, mentre gli esegeti neoilluministici della stessa, passano…..

[4] A. Reghini, Considerazioni sul Rituale dell’apprendista libero muratore, Atanor, Roma. Proprietà letteraria riservata.

[5] A. Pike, Morals and Dogma, Bastogi, Roma, 1983.

[6] L’antichità classica conosceva in effetti molte figure di Ercole, a ciascuna delle quali venivano attribuite qualità ed avventure affatto dissimili (fr. Cicerone, De Natura Deorum , III, 16). Varrone enumera ben 44 distinte tradizioni riguardanti il semidio (cfr. Servio, Ad Aen., VIII, 564).

[7] U. Gorel Porciatti, Massoneria Azzurra, Atanor, Roma, 1990, p. 117.

[8] Dante Alighieri, La Divina Commedia, Inf., III, 6.

[9] Al riguardo si veda P. Geay, Mystères et significations du Temple Maçonnique, Dervy, Paris, 1997, p. 71 e ssg. (Ed. it., Massoneria e Tradizione, Atanor, 2000).

[10] Lungi dal praticare un rozzo politeismo, che i moderni avrebbero definito “pagano” (proprio cioè del volgo delle campagne), i Romani erano ben consapevoli dell’unicità del Principio divino (Giove, padre degli Dei) e di come le diverse ed innumerevoli divinità del loro pantheon non esprimessero di fatto che attributi ed emanazioni specifiche del Dio unico: “fin dalle prime fasi [della storia di Roma] sembra che alcune forze, qualità o condizioni siano state onorate come divine dai romani e fatte oggetto di venerazione, nella speranza di attrarre il potere intrinseco al loro nome se benefico o di tenerlo lontano se malefico” (D. Feeney, Letteratura e Religione nell’antica Roma, Salerno Ed., Roma, 1999, p. 125)

[11] Il mito di Ercole presenta numerose affinità e consonanze con quello di Gilgamesh che il Wirth annovera tra i miti “fondanti” propri della Massoneria (cfr. O. Wirth, La Massoneria resa comprensibile ai suoi adepti: il Maestro, Atanor, Roma, 1990, p. 83).

[12] In realtà Alcmena mette al mondo due gemelli, Ercole, il secondogenito (cfr. Esiodo, Lo scudo di Eracle, I, 35, 56 e 80; Diodoro Siculo, IV, 10), ed Ificle, sui sarebbero spettati gli attributi “Regali”. Tuttavia, quest’ultimo, stando al racconto esiodeo, si umilia dinanzi alle richieste di Euristeo e gli subentra Ercole che ne usurpa funzioni e prerogative in modo, per così dire, “legittimo”. L’episodio è da mettere senz’altro in relazione a quello di un altro iniziato come Giacobbe che, ingannando lo sciocco Esaù si “conquista” di fatto il diritto alla primogenitura (cfr. Genesi, 27). Peraltro il mitologema inerente la contrapposizione tra due fratelli gemelli – di cui l’esempio meglio noto è proprio quello di Romolo e Remo – è antichissimo e diffusissimo nell’ambito delle tradizioni indoeuropee (cfr. U. Lugli, Miti Velati, ECIG, Genova, 1996, p. 96 e sgg.; si veda nelle note allegate l’ampia bibliografia inerente il tema in oggetto).

[13] L’ostilità delle “streghe” – qui da intendersi come prefigurazione di forze tenebrose apparentate alla controiniziazione – evidenzia bene come la restaurazione religiosa operata nel nome di Giove venne attivamente ostacolata nel corso dei secoli che seguirono immediatamente la caduta della città di Troia e che uno degli obiettivi principali – come acutamente osserva il Graves – fosse costituito per l’appunto da Perseo e dalla sua casata (cfr. R. Graves, I miti greci, Longanesi, Milano, 1983, p. 415).

[14] Ercole è propriamente figlio di Giove e come tale è assimilabile al “figlio del cielo”. E’ ben noto come con tale espressione si usi designare l’iniziato.

[15] In origine Ercole era chiamato Palemone e riceverà il suo “vero” nome solo nel momento in cui verrà “iniziato” al percorso che lo porterà a conseguire i Piccoli Misteri. Questo particolare è di estremo interesse poiché ci conferma che l’epopea in questione è propriamente parte di un pellegrinaggio iniziatico e, ricordando come l’iniziazione sia una “seconda nascita” è per una “conseguenza logica immediata che … l’iniziato riceve un nome nuovo [che] sarà tanto più vero quanto più corrisponderà ad una modalità di ordine più profondo, esprimendo per ciò stesso qualcosa di più vicino alla vera essenza dell’essere” (R. Guénon, Nomi iniziatici e nomi profani in: Considerazioni sulla via iniziatica,  Luni, Milano, 1993, p. 241 e sgg.).

[16] La “sottomissione” al Re Euristeo riveste qui un duplice ordine di significato: da un lato evoca la necessità di conformarsi all’ordine costituito – e rappresentato dal potere temporale – il cui fine è propriamente quello di condurre l’uomo al “paradiso terrestre” (cfr. Dante Alighieri, De Monarchia, III, 16; R. Guénon, Autorità Spirituale e Potere Temporale , Luni, Milano, 1995, p. 84 e sgg.); dall’altro sottolinea come l’obbedienza costituisca la virtù indispensabile all’iniziato che voglia effettivamente conformare il proprio volere alla “volontà del cielo”.

[17] Circa i racconti mitologici inerenti la figura di Ercole faremo qui prevalentemente riferimento, tra gli autori antichi, al testo di Apollodoro (libro II) e di Diodoro Siculo (libro IV). Vanno altresì tenuti presenti gli elementi forniti da Esiodo (Teogonia) e  da Euripide (Eracle).

[18] Melusina è il frutto mostruoso dell’unione contra-naturam di un demone con una donna. Simbolicamente ciò esprime la deviazione che inevitabilmente si accompagna alla divulgazione ed all’uso illegittimo di un sapere sacro. Miti assimilabili a questo sono presenti nella tradizione antica, nelle leggende del Medioevo (il nome di Melusina appartiene alla famiglia del Lusignano, che, non a caso, ricopre un ruolo particolarmente tenebroso nella storia di Francia tanto da essere stigmatizzato da Dante che colloca il capostipite nell’Inferno) e sono ferequentemente descritti nella letteratura coranica.

[19] Tifone, figlio della collera di Era – ed espressione del lato oscuro dell’aspetto sostanziale della manifestazione – si rivolta contro Zeus che lo schianta con un fulmine sotto l’Etna (che ancor oggi viene considerata una delle “bocche” dell’inferno; cfr. A. Graf, Artù nell’Etna in: Miti, leggende e superstizioni del Medioevo , Plurima, Roma, 1989, II, p. 177 e sgg.). “Tifone è il più temibile di tutti i mostri nemici dello spirito [e] rappresenta la possibilità di regressione dell’essere cosciente”; la sua generazione viene posta in opposizione diretta alla “partenogenesi” di Atena cui Tifone si oppone in linea retta: “le forze violente dell’istinto pervertito, simboleggiato da Tifone, si scatenano contro l’ideale di saggezza, simboleggiato da Atena” (J. Chevalier e A. Gheerbrant, Dizionario dei simboli, Rizzoli, Milano, 1989). Tifone è così, per antonomasia, l’emblema stesso delle forze che si contrappongono all’iniziato che, per altro verso, prende Atena-Minerva, come guida.

[20] R. Guénon, lettera del 22 aprile 1922. Per una trattazione esaustiva di tale argomento, che esorbita dal quadro delle presenti note, si veda: R. Guénon, Sheth, in: Simboli della Scienza Sacra, Adelphi, Milano, 1975, p. 127 e sgg.; J. Robin, Les Sociétés Secrèts au rendez-vous de l’Apocalypse , G. Trédaniel, Paris, 1985, p. 34 e sgg. ; J.M. Allemand, , René Guénon et les sept tours du Diable, G. Trèdaniel, Paris, 1990.  Circa l’equivalenza Seth/Tifone si veda Plutarco che ricorda come “gli egiziani danno a Tifone il nome di Set, che vuol dire “colui che opprime” oppure “colui che fa violenza”; è lui il demone che straccia e cancella “la sacra scrittura che la dea [Iside] poi raccoglie e ricompone per trasmetterla agli iniziati” (Plutarco, Iside e Osiride, Adelphi, Milano, 1985, p. 58 e 101).

[21] Genesi, 6, 1 e ssg.

[22] Macrobio, Saturnalia, I, 20, 8.

[23] Anche nel racconto Plutarcheo, nonostante la sconfitta subita per mano di Horus, una volta consegnato in catene ad Iside, quest’ultima lascia il demone libero: la permanenza del principio distruttore è infatti necessaria perché “tutto si compia” e deve essere inquadrata nell’ambito dell’escatologia tradizionale dove le contrapposizioni nell’ambito del manifestato durano “fintanto che il mondo duri” e possono estinguersi soltanto passando nell’ordine metafisico.

[24] J. Evola, Rivolta contro il Mondo Moderno, Mediterranee, Roma, 1969, p. 276.

[25] G. Casalino, Aeternitas Romae, Il Basilisco, Genova, 1982,  p. 16

[26] Precedentemente alle dodici fatiche, il mito di Eracle si sofferma sulla violenza da questi portata alle cinquanta “figlie di Tespio” (nella versione di Igino [fabula 162] si parla di dodici sacerdotesse, come 12 erano le vestali) che vengono “violate” nell’arco di una sola notte: l’episodio fa riferimento alla “presa di possesso” di un santuario custodito da un collegio di sacerdotesse al servizio della dea Luna ed al recupero di funzioni sacerdotali da queste illegittimamente detenute. Lo stesso nome di Tespio sembra qui essere una corruzione mascolinizzata della dea thea Hestia – la Vesta greca – alle cui sacerdotesse, così come alle vestali, non veniva riconosciuto alcun ruolo “attivo” nell’ambito del relativo culto la cui direzione doveva appunto essere affidata ad un sacerdote di sesso maschile. E’ probabile che l’intervento di Ercole sia stato motivato dalla necessità di ricondurre la pratica delle cerimonie sacre alla originaria regolarità, stroncando le degenerazioni a cui aveva dato luogo (cfr. R. Graves, Op. cit., p. 421, n. 1). 

[27] R. Graves, Op. cit., p. 453, n. 5)

[28] G. Casalino, Op. cit., p. 21.

[29] Apollodoro, II,5,3.

[30] Micene riveste nel mito il significato di città inespugnabile, sede della tradizione ellenica primeva.

[31] Il fatto che gli zoccoli fossero di un metallo tanto “nobile” quanto il bronzo, suggerisce non solo l’idea di perennità, ma altresì il carattere sacro di una conoscenza che di per sé la “isola” dal mondo profano, così come la cerva è isolata dal diretto contatto con la terra dal bronzo delle estremità.

[32] La caccia alla cerva è presente anche nei racconti del Graal. La relazione tra l’animale e la tradizione Iperborea è qui adombrata dal colore bianco dell’animale che deve essere conquistato da Parsifal e da chiunque aspiri accedere all’onore della Tavola Rotonda.

[33] E’ alquanto significativo che, catturata la cerva, Ercole si trovi il passo sbarrato da Artemide (Diana) ed Apollo. La prima va qui intesa come ipostasi della Luna e il secondo del Sole, le due stazioni che presiedono rispettivamente alle Porte degli Uomini e, rispettivamente, degli Dei (Pitri e Deva-Jana). E’ altresì noto che entrambe sono raffigurate in Giano e di come diano accesso a due distinte modalità di fuoriuscita dal presente grado di esistenza. Nel caso di Ercole, è propriamente Artemide che prima si frappone e quindi facilita il “passaggio” dell’Eroe, ritenendo valida la spiegazione che Egli adduce a giustificazione della cattura dell’animale. Di fatto, l’iniziato che abbia legittimamente conseguito la sapienza iniziatica inerente i Piccoli Misteri, riesce a superare la sfera della Luna (Artemide) per accedere quindi a quella del Sole (Apollo) che immette nel primo cielo, retto da Giove, l’invariabile mezzo della Tradizione estremo-orientale, da cui potrà procedere verso gli stati non-manifestati e giungere così, dal Paradiso Terrestre, a quello Celeste.

[34] R. Guénon, Il Cinghiale e l’Orsa in: Simboli della Scienza Sacra, Adelphi, Milano, 1975, p. 146 e ssg.

[35] Areteo, Deipnosophistarum , IX, 13.

[36] Apollonio Rodio, I, 122 e ssg.; cfr. R. Graves, Op. cit. , p. 438 e ssg.

[37] R. Graves, Op. cit. , p. 440 e ssg.  (si veda la bibliografia annessa ai paragrafi inerenti il mito eracleo).

[38] Il mito parla di un non ben specificato impedimento legato al fatto che Ercole fosse considerato straniero: non si sa se rispetto ai Greci o ai soli Ateniesi cui, in origine, sembra fossero riservati i riti eleusini. Probabilmente l’ostacolo è qui rappresentato da un difetto di qualificazione inerente la condizione guerriera del personaggio, tanto che Eumolpo, supposto “fondatore” dei Grandi Misteri, pur non consentendo al semidio di accedere a questi ultimi, istituì in suo onore i “piccoli misteri” per  consentirgli comunque una valida forma di iniziazione. Va ricordato che Eumolpo è anche il maestro che avvia Ercole allo studio delle arti liberali (astronomia, musica, geometria, letteratura) e lo educa fino al compimento del diciottesimo anno d’età..

[39] Il viaggio iniziatico si svolge nell’ambito dei tre domini della manifestazione – corporeo, psichico e spirituale – corrispondenti alla Terra, all’Atmosfera ed al Cielo del Tribhuvana indù. I primi due mondi sono conseguiti prima di quell’ascensione che avverrà dopo che il fuoco avrà consumato il corpo perituro dell’Eroe, permettendogli così di conquistare il “cielo” dell’Olimpo.

[40] Ercole viene spesso raffigurato con una coppa o scyphus (Macrobio, Sat., V, 21,16), spesso barcollante “come ubriaco”. La coppa è qui il “vascello” che consente all’Eroe di superare le “acque” e deve essere messa in relazione alla conoscenza metafisica che consente di “sfuggire” alle tenebre delle acque inferiori (il mondo della manifestazione”. Nel corso dei riti romani devoluti all’Eroe tale aspetto viene rievocato come ci ricorda Virgilio “Et sacer implevit dextram scyphus” (Aen., VIII, 278). Il simbolismo complesso della coppa è ovviamente da mettere in relazione al Graal, in quanto “oggetto” disceso dal Cielo (la coppa in questione è in effetti fornita da Elio) e, probabilmente con uno degli aspetti più oscuri del simbolismo massonico e templare; di questi ultimi era infatti famoso il detto: “bere come un templare”; mentre, dei secondi, un’antica canzone del ‘700 sottolinea – e a giusta ragione – che “la tazza, la cetera/ se impugna la mano/ un Nume sovrano mi sento nel cor” dato che “farem dei nostri cuori/ i segreti così ascosi/ che neppur sia noto a quelli/ come bevono i fratelli”, affinché “riporti la vittoria/ il saggio bevitor” (cfr. Canzonette e Poesia del ‘700, a cura di R. di Castiglione, Atanor, Roma, 1990).

[41] Giona, 1,3. Tarsis è in questo contesto espressione delle “terre della morte”, luogo dove Dio non può giungere, collocato agli estremi limiti del mondo conosciuto. La città sarà colonizzata dai Fenici e quindi dai Carteginesi che ne faranno una roccaforte pressocché inespugnabile. E’ probabile che abbia per questo svolto un ruolo molto speciale relativamente alla possibilità di diffondere influenze di carattere non propriamente benefico e questo spiega l’accanimento dimostrato dai Romani nell’impossessarsene, vanificando le mire “controiniziatiche” di Annibale (“Anni-baal”: colui che è condotto da Baal) e impedendo che l’espansione fenicia si estendesse al di là delle colonne d’Ercole. Su questo complesso tema lamentiamo la scarsità di documentazione, anche se un accenno interessante si trova in J.M. Allemand, Op. cit. , p. 63 e ssg.

[42] La Tradizione celtica riferisce di come Cuchulain disceso all’Inferno, ne fuoriuscì riportando tre mucche ed un magico calderone, nonostante le tempeste scatenate dall’ostilità degli dei (cfr. J.-P. Bourre, La Quête du Graal, Dervy, Paris, 1993). Il racconto in questione è solo apparentemente sovrapponibile a quello di Ercole: Cuchulain si impossessa di mucche (e non di buoi) e di un calderone magico, contro il volere degli dei; Ercole riceve il calderone (la coppa) dal dio Sole (Elio) e si impossessa dei buoi in modo legittimo, sconfiggendo le potenze tenebrose – incarnate dai figli della controiniziazione – in piena sintonia con la “volontà del Cielo”.

[43] Plinio, Storia Naturale, III, Proemio; Strabone, Geografia, III, 5,5.

[44] Il nome celtico mette direttamente in relazione Ercole al raggio “riflesso” del Sole, quasi a sottolineare come nell’Eroe si riflettano le virtù e il principio divino stesso del Sole. Un concetto analogo viene espresso da Macrobio, che ci ricorda come “nemmeno Ercole è estraneo alla sostanza solare” (Saturnalia, I,20,6). Circa le fonti celtiche si veda Luciano, Eracle , I; il tema di “Ogma volto di sole” viene diffusamente trattato da un antico poema gallese il Marwnad Ercwlf, incluso nel Red Book of Hergest. Si veda altresì di R. Graves, La Dea Bianca, Adelphi, Milano, 1990.

[45] R. Graves, Op. cit., p. 465, n. 3.

[46] M. Bizzarri, Mito e Simboli della Cerca del Graal in Massoneria , Massoneria Oggi, Feb. 1997.

[47] Anche nell’ambito della Tradizione Romana, la fondazione di un tempio ad Ercole sembra segnare l’avvenuto “passaggio” da un tradizione di tipo atlantideo al periodo della restauratio di Zeus e precede cronologicamente l’erezione di qualunque altro edificio consacrato.

[48] U. Gorel Porciatti, Op. cit., p. 58.

[49] Per questo motivo Ercole verrà onorato insieme alle Muse come apportatore di quelle arti che consentono di ricostruire una cultura ed una civiltà (cfr. Plutarco, Questioni Romane, 59; Servio, Ad Aen, VIII, 130 e 336; Igino, Fabula, 277).

[50] Caco è un gigante tricefalo, figlio di Efesto e Medusa, divoratore di uomini : il suo antro è scavato in una grotta ai piedi dell’Aventino, il colle dove i Romani avrebbero “confinato” successivamente le entità “minacciose”, come Diana.

[51] Non altrimenti va letto il mito di fondazione di Roma, il cui primum movens va ricondotto alle peregrinazioni del ver sacrum guidate e sorrette da Marte, simbolo per eccellenza della via eroica al sacro.

[52] Nella tradizione Indù tale ruolo è assolto direttamente da Indra, il dio dello Swarga (il cielo “inferiore”, assimilabile sotto molti aspetti al Giove greco-romano, che sconfigge Vala per sottrargli una mandria di vacche. In questo caso il simbolismo sotteso alle due narrazioni, pur non essendo totalmente sovrapponibile, presenta aspetti comuni di grande rilievo.

[53] Sotto questo aspetto Ercole “fonda” Roma prima ancora di Romolo, ponendone le premesse sacre ed indicandone il ruolo che l’Urbe sarà chiamata svolgere. Non è un caso che Romolo istituì, tra i primi il tempio di Ercole, la cui statua viene annoverata da Cicerone tra i Penati della Patria e che il richiamo alla figura ed alle gesta dell’Eroe, costituisce quasi una categoria concettuale comune a tutto il pensiero romano.

[54] Invero questo è un aspetto che meriterebbe una più attenta sottolineatura. Minerva, espressione della saggezza di Giove, assomma in sé aspetti ricapitolativi di tutte e tre le funzioni indoeuropee (sacerdotale, guerriera e artigianale), ma è soprattutto la dea delle confraternite iniziatiche – tra cui i collegia romani – che le tributano un culto esclusivo e riservato. E’ probabile che la conoscenza sacra che Ercole recupera nel corso della sua avventura venga affidata per l’appunto al depositario di una specifica forma di iniziazione misterica.

[55] Macrobio, Saturnalia, I,20,6.

[56] Plutarco, Iside e Osiride, Adelphi, Milano, 1985, p. 101.

[57] Il Tempio in questione è per l’appunto quello fondato dal re di Tiro e ricordato anche da Pomponio Mela (3,6,3). Considerando l’importanza di tale insediamento, posta a custodia delle colonne d’Ercole, l’episodio qui narrato da Macrobio assume un significato specialissimo e tutt’altro che accessorio, prefigurando i tentativi di “abbattere” le colonne che solo nel futuro sarebbero stati coronati da successo. L’episodio di Terone, sia rilevato di sfuggita, ci ricorda altresì come da sempre forze tenebrose abbiano provato ad impossessarsi del santuario eracleo; ma è soltanto con l’impresa di Colombo che le colonne verranno di fatto abbattute con tutte le conseguenze che ben conosciamo.

[58] Macrobio, Saturnalia, I,20, 10 e sgg. Ricordiamo altresì che la festa del dio veniva celebrata il 12 agosto all’insegna di “Hercules Invictus”, un’aggettivazione peraltro riservata al Sole e che come tale sarà poi ripresa nel culto omonimo (Sol Invictus), trasposta in corrispondenza del solstizio invernale e messa infine in relazione con il Cristo – “il Leone della tribù di Davide” -  che, al pari di Ercole, da uomo torna ad essere dio. Tali accostamenti simbolici, per quanto necessitino di una più approfondita riflessione, sono indubbiamente di per sé più che significativi per chiunque abbia una sia pur minima cognizione delle relazioni che sussistano, a livello simbolico, tra le diverse tradizioni regolari.

[59] La leggenda assegna ad Ercole due luoghi sanctissimi tra tutti: la zona dell’Ara Maxima, davanti al Palatino e quella di Porta Trigemina, alle pendici dell’Aventino, dove sorgeva il Templum Herculis Victoris (Tacito, Annali, 12,24)

[60] J. Carcopino, Aspects mystiques de la Rome païenne, 1941, p. 176 e ssg. Un suggerimento analogo sarebbe stato avanzato dal Bayet (Les origines de l’Hercule Romain, 1926, p. 263 e ssg.), ripreso anche se senza convinzione da Dumézil (Op. cit., p. 420 e sgg.). E’ probabile che le due famiglie ricoprissero incarichi distinti: la prima – i Potiti – deteneva i segreti del rito, mentre i Pinari erano custodi del culto e del Tempio. Così può forse spiegarsi la leggenda per la quale i secondi venivano privati del privilegio di cibarsi degli exta delle vittime e dovessero “recarsi al banchetto solo per servire [..] quindi son chiamati custodi del rito in quanto servitori” (cfr. Veranio, cit. in Macrobio, Saturnalia, III,6, 14). Come noto, anche la Massoneria conosce distinzioni di grado iniziatico per le quali spetta ai “fratelli serventi” – gli apprendisti -  la cura dell’agape e la custodia delle suppellettili.

[61] Proclo, Im Remp., I, 120, 12 e sgg.; cfr. altresì  In Tim., III, 300, 13 e sgg.

[62] S. Eitrem, La théurgie chez les néoplatoniciens et dans le papyrus magiques, in: Symbolae Osloenses, 1942, 22, p. 73.

[63] Il rito veniva officiato secondo le consuetudini greche (grecu ritu) che comportavano per l’officiante di celebrare la cerimonia il capo scoperto e una corona di lauro sulla fronte. Ad Ercole – ipostasi stessa del sacrum facere - venivano consacrati diversi tipi di animali e devoluta la decima parte di quanto è stato salvato o acquisito. Il carattere manifestamente ellenico della cerimonia non inficia tuttavia la possibilità che esista una tradizione schiettamente italica della figura di Ercole, come suggerito da alcuni autori e in primo luogo da Varrone che (De Lingua Latina, V, 5,66) che lo mette in relazione con il sabino Sancus e, seppure tale accostamento ci risulti francamente problematico, con la figura di Dies Fidius.

[64] T. Livio, Ab Urbe condita libri, IX, 29. Come ben noto la cecità acquisita costituisce spesso un segno di disqualificazione iniziatica e come il marchio di una grave violazione dell’ordine costituito. L’episodio ha curiosamente intrigato la sensibilità di artisti che, come Cesare Maccari, l’hanno riprodotto su tela (cfr. il dipinto esposto a Palazzo Madama: Appio Claudio cieco portato alla Curia).

[65] G. Dumézil, Op. cit., p. 421.

[66] Macrobio, Saturnalia, I, 20,6.

[67] “E peraltro so che, una volta soppressa la devozione (pietas) verso gli dei, vengono estirpate anche la fedeltà e la civile convivenza del genere umano e la stessa giustizia, virtù per eccellenza” (Cicerone, Op. cit., I, 4).